Cara Fiorendipità,
qualsiasi intuizione che permetta di collegare Firenze al mito etrusco è evidentemente di mio interesse, come lo è per altri autori che hanno gravitato intorno a Press&Archeos. Lo si evince da vari testi pubblicati negli ultimi anni, caratterizzati dalla tendenza ad aggirare soggetti moderni e contemporanei ripartendo dall’antichità.
Parliamo forse, in parte, di prospettive personali, ispirate alle chiacchiere dei “nostri vecchi”, ai libri che abbiamo ereditato e a quelli che abbiamo inizialmente editato. E dello spettro di un papiniano Dante etrusco (1) che continua ad aggirarsi tra i vicoli delle nostre notti. Ma c’è senz'altro di più.
Penso che Firenze si sia realmente presa carico dell’identità etrusca, in un’epoca ormai remota ma non ancestrale, e ritengo che interrogarsi su tale legame, sulle sue caratteristiche dialettiche, poetiche, persino psicologiche - nonché sugli “utili” e le "perdite" di quell’insieme di esperienze - permetta di comprendere meglio la tortuosa esistenzialità fiorentina, certi fatti specifici e forse quel senso di “maledizione” vagheggiato già molto prima che Curzio Malaparte ci deliziasse con le sue punzecchiature.
Ritengo inoltre che molti (enti, aziende, associazioni, privati) che avviano i loro progetti rifacendosi all’immaginario etrusco dovrebbero guardare al caso storico di Firenze, prima di finir col diluire i propri simboli nella più generale pre-romanità, cadendo oltretutto in un tipico “effetto Penelope”.
Insomma un po’ di psicologia, che ci s'occupi di marketing storico, politico, turistico, editoriale o enologico (2), potrebbe non guastare; e forse è per questo che mi si “drizzano le antenne” quando le tracce etrusche sembrano particolarmente sottili, intuitive più che storiografiche. Un caso del genere, incerto quanto curioso, ha ancora una volta a che fare con Orsanmichele, luogo intorno al quale mi sono aggirato spesso (a parole, e non solo) negli ultimi mesi.
Statue scambievoli
In un articolo del novembre scorso ho scritto a proposito della Madonna della Rosa, la celebre statua che si trovava in una delle nicchie esterne del palazzo/chiesa e che fu traslocata in interno nel 1628, in seguito ad alcuni atti di spregio, con la seguente sintesi di storie, detti, esclamazioni (3). Il suo posto fu occupato dal capolavoro di Donatello, San Giorgio, la cui fama stava rapidamente crescendo. Precedentemente la statua del santo-cavaliere si trovava in una nicchia assai sporgente, esposta a nord e per questo maggiormente soggetta a deterioramento; con questo trasferimento si pensò di proteggerla e meglio preservarla.
Ma nel 1845 anche il San Giorgio si prese una sassata, perdendo parte del naso. E dunque nel periodo successivo fu spostato nelle sale del Bargello.
Viene da chiedersi se quella nicchia, posta su via Lamberti, fosse in qualche modo maledetta! Sembra infatti che le figure messe in quella posizione dessero l’impressione di seguire con lo sguardo i passanti, incontrando quindi un chiaro rischio statistico: prima o poi, qualche grullo, ci passa.
E dire che il naso del San Giorgio resta particolarmente prezioso. Ma lo sono, nel complesso, gli occhi provati e attenti («lassi», scriveva il Carducci), la bocca pronta, le sopracciglia tese, insomma il viso tutto, che è un capolavoro di scultura micro-fisiognomica. Si deduce che Donatello volesse conferire l’impressione della prontezza dell’eroe, e ci riuscì pienamente. Oggetto di svariate interpretazioni storico-artistiche, matematiche e filosofiche, l'opera ha ispirato pure qualche bizzarra teoria, come avviene per ogni episodio artistico eccezionale e significativo.
È questo il caso di un passo di Raymond Bloch, esimio archeologo francese che nel suo celebre Les Étrusques azzardò il paragone tra il volto di San Giorgio e quello di una statua etrusca, d’ambito veiente, non particolarmente famosa ma ben nota agli studiosi: il Volto Malavolta (5).
La testa del fanciullo etrusco
Rinvenuto a Portonaccio di Veio nel 1916 e visibile oggi nel museo di Villa Giulia, il Volto Malavolta (il cui nome dipende dal suo scopritore) fu riconosciuto come opera coroplastica di uno scultore del V sec. a. C., abituato probabilmente alla modellazione a fine di fusione bronzea.
Si tratta anzitutto di un ex voto, commissionato all’artista dalla famiglia del giovane iniziato ai misteri di Menvre (Minerva), quindi alla maggiore età e presumibilmente all’attività militare. Non si tratta dell’unico caso del genere: nei pressi del santuario si contano ritrovamenti di numerosi ex voto (4), in materiali e forme varie, come quelli di un Tolumnius di Fidene o un Vibenna di Vulci (si parla di casate tra le più importanti dell’Etruria laziale), e di altri giunti fin lì per venerare Menvre e ingraziarsi il suo oracolo. In Etruria sono state trovate più statue di giovani, create per analoghe funzionalità, come una testa di fanciullo da Fiesole, il Bruto Capitolino di Roma, il “Blonder Kopf” di Falerii (5), ma cito anche un bronzetto in cui è stato riconosciuto Eracle, conservato a Toledo (6).
Sebbene non particolarmente famoso, il Volto Malavolta ha sempre colpito i ricercatori e gli appassionati per la capacità di «suscitare emozioni ancor oggi» (7), grazie soprattutto all’espressività dei grandi occhi e alle labbra pronunciate che «sfuggono ad ogni canone»; mentre la capigliatura a ciocche definite richiama la scuola di Policleto e l’ambiente post-fidiaco.
Gli artisti etruschi raccolsero sì la lezione greca, ma con una «reazione» molto specifica che potremmo definire per certi versi “macchiaiola”. L’accademia venne assunta come modello di perfezione formale per esser poi «piegata ad una sensibilità che di quel modello non esita a disarticolare il connotato principale - l’organicità.» (8)
In un caso analogo, quello del Marte di Todi, vediamo lo stesso fenomeno svolgersi su una figura intera, con il grande interesse dell’artista per i dettagli (soprattutto della corazza), ma «il corpo e l’invenzione ellenica ne escono, letteralmente, a pezzi» (9). Ciò vale, almeno in parte, anche per le famose opere veienti che arricchivano il frontone del tempio di Portonaccio, come per altre sculture etrusche.
La qualità, o meglio la geniale spontaneità della modellazione, fece “sognare” Raymond Bloch, che ipotizzò che Donatello avesse visto dei modelli analoghi; ma l'archeologo concluse più precisamente - e moderatamente - che fosse ravvisabile una «similarità nel temperamento degli artisti». In altre parole, lo scrittore americano alluse a un caso di “sincronicità” tra genio rinascimentale e arte etrusca.
Questo genere d'argomento è stato da me eviscerato in alcuni testi degli anni scorsi, e in modo particolarmente vasto a proposito dell'influenza di un’idea “espansa” di paesaggio (10). La questione appare ancora intricata, mentre ci stiamo occupando di un episodio specifico e per certi versi frugale; ma vogliamo comunque “prendere sul serio” l'intuizione di Bloch, capire cosa può esserci di valido nel suo paragone, guardando anche a una certa complessità di fondo.
Il “pittogramma”
La “sovversione dell’organicità” è l’evidenza, se non di limiti tecnici, di una ridiscussione pratica (in potenza) del gesto artistico, dalle sue fondamenta. Che questa azione sia esteticamente consapevole è altro discorso. Essa è colta dall’uomo moderno come un’occasione di ripartenza e quindi un presagio di contemporaneità. Del resto la storia, intesa come fonte inesauribile di legittimazione, è una questione di prospettive, con buona pace degli antichi, di ciò che potessero realmente pensare o provare. Questo almeno finché non valutiamo la possibilità di un modello paradossalmente ulteriore alla cronologia - e quindi anche al contemporaneo, capace di agire dal profondo. Lungi dalla metafisica, possiamo procedere in una sorta di “ragionamento per assurdo” - capace forse di condurci ad avamposti ulteriori.
Per il volto del giovane veietano, su cui aleggia oscura la sorte di coloro che vissero l’assedio e la distruzione da parte di Roma (11), si parla di “tratti acerbamente aggressivi” (12). Lo studio della microfisionomia del San Giorgio, scolpito in anni di grande vigore intellettuale, conferma che Donatello lavorò i dettagli del volto con l’intenzione di conferire una calcolata aggressività. Eppure, osservando nel dettaglio le opere su cui Bloch ha intuito ciò che noi ora cerchiamo di delineare, le similitudini restano, tutto sommato, relative e poco marcate. Certo i grandi occhi, la bocca tesa, i capelli a ciocche, l'inclinazione della testa… ma è altresì intuibile una qualche determinazione primaria, una modalità d’azione dell’artista magicamente trasferita al personaggio e quindi, nel caso etrusco, al fanciullo soggetto del voto-incantesimo.
La matrice dell’analogia non riguarda semplicemente i dettagli ma l’impronta di un’operatività di fondo. In un certo senso, diciamo psicanalitico, potremmo parlare di pittogrammi: un’immagine ridotta alla sua essenzialità e in questo capace di traslarsi attraverso i limiti individuali, anzitutto come impronta di un'intenzione. Non a caso il concetto di pittogramma viene utilizzato da chi studia, o cerca di studiare, fenomeni limite come quello della telepatia psichica (13).
Donatello non aveva bisogno di vedere gli Etruschi - che pur vide e a cui si ispirò (14) - nella misura in cui attingeva, con tutte le variabili della consapevolezza, al medesimo arabesco, a un gioco-crogiuolo e alla conseguente attivazione di un particolare “processo organico”, come lo definirebbe Grotowsky.
Tornando a Bloch leggiamo, qualche riga dopo il suo riferimento al Volto Malaparte,
che «la diretta ispirazione dalla sorgente è indubbiamente l’origine
delle affinità nei particolari e nello stile tra opere così separate e
lontane nella storia dell’arte» (15).
Il bronzo “dietro”
Questo fattore “sgorgante” potrebbe dipendere però, al contempo, da un dato storico-artistico oggettivo.
I due artisti, così lontani tra loro nei secoli, avevano in comunque la familiarità con la lavorazione del bronzo. Erano quindi degli abili modellatori, abituati a lavorare con le argille tratte dal proprio paesaggio per procedere poi con la fusione a cera persa.
Lavorare una statua in terracotta per la fusione significa pensarla come qualcosa che dovrà sostenere, premere, domare le energie custodite nel metallo incandescente. Ora qui percepiamo, nei due volti, una sorta d'ombra inversiva: l’idea, rappresentata mentalmente dal modello-bronzeo ideale, preme sul lavoro artistico di entrambi. Ecco il “pittogramma” che soggiace all’evidenza della “maniera manifestamente metallica” (16) del Volto veietano.
Nel V secolo la lavorazione del bronzo doveva essere il “core business” della bottega dell’artista che ritrasse il giovane per la sua iniziazione, sebbene in quel preciso genere di commissione non si giungesse alla fusione, accontentandosi della cottura del modello, poiché l’economia di un ex voto non richiedeva necessariamente uno sforzo del genere.
E, sempre la fusione in bronzo, molti secoli dopo, fu la dimensione in cui la maestria di Donatello si manifestò pienamente, tanto che i grandi artisti successivi, come il Cellini, dovettero cimentarsi da un lato con i grandi-bronzi etruschi (Chimera, Minerva, Arringatore) emersi dai paesaggi dell’Etruria medicea, dall’altro con le opere del grande maestro del secolo precedente.
Il lavoro sul bronzo è una questione eminentemente etrusca, essenziale alla comprensione dell’arte toscana.
Come ipotizzato e per qualche tratto emerso in altri studi (17), nel Rinascimento mediceo la lavorazione del bronzo richiamava valori energistici fondamentali, ed era considerabile un’arte particolarmente completa in senso alchemistico. Plasmare la terra nell’acqua e nell’aere, forgiarla con il fuoco della fusione, applicarla al versamento del metallo fuso; questi valori ideali dovevano essere percepiti, in qualche modo, anche nell'antichità.
Doveva essere percepita, più precisamente, l’idea di raccogliere la potenza dell’io rappresentato, la sua piena idealità, attraverso la creazione/fusione della sua immagine scultorea, domando il fuoco e la sua energia più essenziale.
La potenza dei volti e la Sposa etrusca
Torniamo quindi sull'importanza del volto, che nell’antichità etrusca testimoniava l’intensità complessiva di una presenza, custodendo il suo “pittogramma” fondamentale, con un retaggio antichissimo che passa, senz’altro, dai vasi canopi di Chiusi (18) ma che giunge intermittente alle reinterpretazioni rinascimentali.
Al volto del San Giorgio è richiesto d’esprimere tutti i valori e i dis-valori della tensione esistenziale; l’artista giunge all’impresa dopo maturazioni ed esperienze storico-artistiche, mentre l’artista etrusco sembra essere semplicemente già lì, e in fondo il punto è questo.
Questo esser lì, occupare il punto della sorgente e riflettere la propria azione nel puro uso di sé, “come allo specchio”, è oggetto definitivo di un’indagine altrettanto definitiva, che comporta in buona parte la diluizione dell’ego dell’artista.
Il volto a cui si lavora diviene il simbolo complesso attraverso il quale scaturisce un invito alla trascendenza nella semplice potenza - e lo spettatore, attraverso un'azione organica, partecipa in qualche modo a tale possibilità.
Vi è quindi, tornando a Orsanmichele, un’ultima osservazione che voglio fare, alla fine di questo breve excursus, serenamente fondato su bei volti, lineamenti e valori sottili ... e osservazioni a tratti così eteree.
Come detto inizialmente, il San Giorgio occupò, nel 1648, la nicchia della Madonna della Rosa, traslocata in chiesa in seguito alle "violenze" subite. Ma anche quel volto di Maria ha una notevole somiglianza con un caso-reperto etrusco. Questa similitudine, mai notata prima, emerge chiaramente sulla scia della suggestione, del “gioco” già compiuto dal Bloch. Siamo forse allineati su un medesimo “processo organico”, stavolta mentalizzato?
Penso quindi alla donna che ci sorride nel Sarcofago degli Sposi, prodotto nel VI secolo, nello stesso territorio del Volto Malatesta. La sposa, con i suoi occhi netti e arguti, il mento piatto e morbido, l’ovale doricheggiante, sembra proprio la stessa donna usata per modella da Pietro di Giovanni Tedesco nel Rinascimento.
La stessa che prima sorride nel giorno delle sue nozze, e ci osserva ora, autorevole, nella sua piena funzione di Madre.
LP
Fiorendipità
Ogni primo Marte-dì del mese
Note
1) Il Dante vivo di Giovanni Papini (Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1933) contiene un capitolo dedicato al “Dante etrusco”.
2) Mi compete in parte questo aspetto, in seguito alle ricerche condotte ne Il Risveglio di Fufluns (Press & Archeos, Firenze 2018), dedicato (anche e non solo) all’estetica e al marketing dei vini che si rifanno all’immaginario etrusco.
3) Fiorendipità, martedì 5 novembre 2025.
5) R. Bloch, Gli Etruschi, Il Saggiatore, Milano 1959, p. 195.
4) Nel IV/III secolo si registra inoltre una «valanga» di statue votive, teste plasmate a stampo, e altri generi di ex-voto anatomici. Sono spesso rappresentati ragazzi che si offrono all’iniziazione in nudità eroica.
5) E. Pellegrini, S. Rafanelli, Vecchie scoperte e recenti indagini a Bolsena, Serra, Roma 2008, p. 48.
6) G. Colonna, Arte etrusca, in Enciclopedia dell’Arte Antica, www.treccani.it, 1994.
7) L. d’Erme, Testa Malavolta, sul sito del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, www.museoetru.it, 2020
8) F. Roncalli, A colloquio con Claudia, ne “Il capitale culturale”, XVII, 2015, pp. 1022-1023.
9) F. Roncalli, Ibid.
10) Lorenzo Pecchioni, Il Fattore E. Ricerche sul paesaggio etrusco, Press & Archeos, Firenze 2020, e ancor prima Wy in Tuscany?, in “The Medici and The Etruscans”, Press & Archeos, Florence 2025 (prima edizione, 2018).
11) Nel 396 la città di Veio cadde definitivamente in seguito a un lungo e lacerante assedio. Laura d’Erme (op. cit.) introduce la suggestione che il ragazzo ritratto nel Volto abbia assistito alla caduta della sua città.
12) G. Colonna, op. cit.
13) È utilizzato in modo curioso ma fertile da D. Si Ahmed, Psicoanalisi e parapsicologia, Borla, Roma 1993.
14) Etruschi e Rinascimento. Ricerca e celebrazione nell’Etruria medicea, a cura di E. Pecchioni, Press & Archeos, Firenze 2017, pp. 25-26.
15) R. Bloch, op. cit., p. 169.
16) G. Colonna, op. cit.
17) F. Pollastri, Archeologia e esoterismo, in “Etruschi e Rinascimento, cit., p. 109.
18) F. Roncalli, op. cit., p. 1022.