I muri graffiti nelle strade dei dintorni di Firenze. Una magia etrusca

Fino alla prima metà del secolo scorso nelle campagne fiorentine esisteva una tradizione discreta e silenziosa, oggi quasi completamente dimenticata ma un tempo capace di trasformare semplici muri lungo strade secondarie in superfici animate.
Consisteva nel decorare le pareti di confine delle ville poderali con motivi geometrici tracciati direttamente sull’intonaco. Linee orizzontali e verticali, elementi vegetali, bande di colore, losanghe, quadrati, greche, giochi di simmetrie che si sviluppavano lungo le facciate rivolte ai sentieri di collina o ai campi coltivatii. Graffiti o pitture poveri, spontanei, fatti con materiali elementari ma capace di produrre un effetto di eleganza e misteriosa suggestione.
Lo storico e architetto Lando Bartoli descrisse, in un prezioso volume, queste decorazioni come “magiche attrazioni” (1), alludendo al loro potere estetico e quindi simbolico.

Quel libro ha un ruolo speciale nella mia libreria e a volte capita di sfogliarlo, soprattutto in estate, quando si è in procinto di lasciare Firenze per le vacanze, e ci si prende qualche ora per sé. Un momento di riflessione sul proprio paesaggio, un'anticipazione della gioia essenziale — e ancora poco più che in nuce — del ritorno.
D’altronde in questa forma d’arte così semplice ma efficace ho sempre intravisto qualcosa di atavico, come se i graffiti fossero incredibilmente più antichi di quel che sono in realtà. Insomma: come se fossero “etruschi” nel senso più essenziale e a-cronologico.
Ma per quali ragioni questa “etruschità” è così sensibile — a me come ad altri — e sembra richiedere una riflessione, ispirando un momento di sospensione della cronologia? La risposta sta probabilmente nel rapporto con il paesaggio.


I muri graffiti non erano soltanto ornamenti, quanto strumenti di relazione tra l’architettura contadina e il paesaggio circostante. Il loro compito era quello di rendere visibile un ordine, di raccontare la presenza umana nel paesaggio senza alterarne la semplicità. Di rendere omaggio e trarre energia, affermare la propria presenza senza nessun tipo di imposizione. La geometria essenziale dei graffiti ricorda talvolta i giochi di luce e d’ombra delle coltivazioni, i disegni dei filari, la ripetizione delle zolle nei campi arati; non esistevano regole codificate: ogni podere, ogni fattoria, ogni villa poteva scegliere i propri motivi, affidandoli talvolta a semplici muratori, altre volte a pittori locali, sempre però mantenendo quell’austerità, e un certo stile comune, che si sposava con l’architettura rurale.

È facile rivedere in questo estro, pienamente ispirato ma tutt’altro che geniale, il tratto degli antichi pittori etruschi che avevano assimilato la lezione dei greci riportandola a uno spirito originario e al contempo originale. Così com’è possibile rivedere, nei motivi a losanghe, nelle linee divisorie, nelle ondulazioni delle trame floreali, qualcosa delle decorazioni in terracotta dei templi etruschi, che ponevano il mondo di quella civiltà nella piena armonia col territorio.

Possiamo trovare, in queste forme espressive, l’eco della cifra artistica di un popolo che, al contrario dei greci, non abdicò mai al dio dell’estetica — magari a scapito del sacro — ma mantenne un rapporto di basica immedesimazione con il proprio paesaggio. L’Etruria pliocenica-vulcanica, da Fiesole a Roma, già da tempo immemore favoriva soluzioni paesistiche specifiche, autonome, cardiache; e l’immagine del territorio trasmetteva un senso d’identità dei panorami interiori.

Forse gli artisti etruschi, semplicemente in quanto etruschi, non poterono compiere nell'arte i passi compiuti da altri, poiché presi da un mondo già a suo modo perfetto, senz’altro "conchiuso". Ma se nella grande statuaria etrusco-ellenistica si avverte quasi il gemito — se non il grido — del trauma di certe incapacità, nel mondo magico delle decorazioni fittili e graffite (non necessariamente prive di figure umane) i nostri antichi hanno lasciato una lezione essenziale, definitiva nella sua pertinente semplicità.

Questo valse ancora, per i motivi misteriosi che rendono la Toscana un luogo unico, fino al Novecento, quando lo stesso spirito s'innescava ora tra le mani dei muratori e dei carpentieri fiorentini; perché i paesaggi erano in fondo gli stessi, e le anime custodivano eredità che vanno oltre l’antropologia o — figuriamoci! — la genetica.



Con la fine del mondo mezzadrile e l’abbandono progressivo delle campagne, le magiche astrazioni dei muri graffiti si sono andate “spegnendo” e spesso restano a malapena visibili. I muri sono stati intonacati di nuovo, le case ristrutturate senza più quei disegni, la maggioranza delle incisioni geometriche sono lentamente scomparse sotto l’incuria o sotto mani anonime di moderne vernici. Oggi resistono solo poche tracce sbiadite, visibili lungo alcune strade secondarie, in angoli dimenticati, oppure documentate nelle fotografie raccolte dagli studiosi più attenti. E, per quanto mi riguarda, si tratta sempre di incontri inaspettati e silenziosamente gioiosi.


Scopro solo ora che, qualche mese or sono, è stato organizzato un evento dedicato a questo interessante soggetto presso l’Archivio di Stato di Firenze (2). Ma non vedo grandi riscontri su internet e ho l’impressione che la “magica astrazione” resti un’avventura riservata; non certo elitaria — tutt’altro — ma attinente al rapporto che il paesano conserva silenziosamente con il proprio paesaggio. Dal quale per un fiorentino, al di là delle umane gioie, non sembra mai giusto allontanarsi troppo.
Perché l’eternità chiede sempre qualcosa in cambio.

LP
Fiorendipità
Ogni primo Marte-dì del mese

 


Note
1) Lando Bartoli, Le strade del contado fiorentino e la magica strazione dei muri graffiti, Becocci, Firenze, 1981
2) https://archiviodistatofirenze.cultura.gov.it/asfi/mostre/default-f1eaede31a75ce647385e179b8bbe40c/presentazione
Foto tratte dal libro di Lando Bartoli