Il fantasma del Tempio di Firenze

I luoghi che si auto-difendono e il paesaggio dell’apparizione micaelica


Ricordi personali a mo' d'introduzione

Nel soggiorno della casa voluta da mio nonno in Chianti è visibile tutt’oggi un grosso quadro, un dipinto da lui realizzato negli anni ’30 o ’40. Si tratta dell’immagine di un paesaggio montuoso, colline alte e verdeggianti, viste da un luogo nei pressi di una vecchia spelonca dove il pittore montò il suo cavalletto ormai quasi un secolo fa.

Come tutti gli artisti mio nonno aveva le sue piccole e grandi ossessioni. Soggetti che si ripetono in più opere (penso ad esempio al campanile di Monte Oliveto di Firenze), incomprensibili astensioni o omissioni (da un certo momento, smise di disegnare le finestre delle case!), apoteosi di motivi simbolici come fiori materici, ciprésse androgine, nuvole deformate, tutto facilmente passibile d’interpretazioni freudiane. Ma oltre tutto questo aveva una personale collezione di aneddotti, frecciate, auto-pungolamenti o auto-interpretazioni che ogni tanto era necessario inoltrare ai presenti. Sono giochetti che ogni artista fa normalmente con sé stesso e gli altri, parte del proprio modo di dichiarare un personaggio.

Del grande dipinto in questione ricordo che c’era un dettaglio figurativo che a mio nonno dava fastidio, e che nonostante gli anni trascorsi avrebbe voluto correggere, ma stava ormai da decenni incubato sotto il vetro del quadro.
In breve, nel disegno della sequenza delle colline ce n’era una, più lontana, che avrebbe dovuto continuare il suo declivio a destra di una cima più vicina. Invece era come se si interrompesse bruscamente, nello spazio reso invisibile dalla collina innanzi, spezzando così il dettaglio del ritmo. Il nonno indicava spesso quel punto di mancanza e alzava gli occhi al cielo … maledicendo il suo errore.

Solo in tempi recenti ho realizzato che quella sequenza di grosse colline corrisponde alla catena dei Monti del Chianti e a quel tratto della linea di San Michele (da Monte Domini a Monte Maione passando per Monte San Michele) vista da un pianolo relativamente elevato, come ce ne sono molti tra San Donato, Castellina e Radda. Un territorio che mio nonno frequentava abitualmente, nel quale ha raccolto molti dei suoi deja-vu artistici.
E solo in questi giorni, preso da una sorta di insight psicologico, ho dedotto che il tratto di collina mancante può corrispondere a una dorsale minore, in un certo senso “nascosta”, corrispondente al luogo di Casa Maione, nei pressi di San Michele di Monte Maione. Una chiesa diruta e una località eremitica a cui ho dedicato molti anni di ricerche, attraverso libri e documentari, dall'ormai lontano 2010 fino a tempi recenti (la riedizione de Il Cammino dell’Angelo è del 2024).

Per anni e anni ho vissuto nel salotto dov'è appeso quel quadro, vi ho cenato, chiacchierato, ricercato, senza aver mai associato coscientemente il soggetto, l'omissione pittorica e la mia ricerca personale. Ora, a distanza di anni, è come se il quadro avesse parlato al mio inconscio, con il suo strano difetto, suggerendomi un nuovo orizzonte d'indagine personale.

Tutto ciò mi sembra un buon esempio di come possano essere insondabili e sfuggenti le radici e le diramazioni di una ricerca, e come questa possa rivelare i suoi aggrappi psicologici anche dopo molto, molto tempo dai suoi inizi.
Ma non solo. Alcune suggestioni - come il caso personale del ricordo-visione di mio nonno che indica la dorsale nascosta - sembrano suggerire qualcosa di più dell’oggetto indagato, evocando nuovi punti di vista anche dopo molto tempo.

Inoltre, riavvolgendo lo zoom e guardandoci intorno, è quasi sempre possibile collegarsi a un contesto più ampio: un periodo/momento in cui alcuni eventi, incontri, casualità, avrebbero creato un contesto fertile per la manifestazione di nuove intuizioni.
E nel mio caso, pur trovandomi in Chianti, vedo tanta Firenze, e un po’ di fiorendipità, tanto per cambiare.



La “dorsale nascosta”


Quale “realtà di fondo” tradisce la metafora dell’errore del pittore, quale impasse sta denunciando la sua apparizione in una recente attività onirica, colto mentre indica il detestato difetto del dipinto?

La proposta, a me stesso ed al lettore, consiste nel valutare la possibilità, apparentemente assurda, che quella dorsale, per motivi ancora tutti da chiarirsi, dovesse rimanere nascosta, segreta, omessa. E che l’errore compiuto dal pittore (il “medium” del paesaggio) sia un effetto collaterale di questa necessità fondamentale.
Inoltre, le stesse dinamiche riguarderebbero la fenomenologia di altri luoghi analogamente caratterizzati. 

Ma restiamo ancora per un po’ sul crinale dei monti chiantigiani, e andiamo a rivedere, in sintesi, il materiale storico, in cerca di conferme a queste impressioni.

La suddetta “dorsale nascosta” tende a non comparire nelle mappe più antiche, rimanendo ignota agli interpreti del territorio. Chi abitò nella località di San Michele di Monte Maione era indubbiamente poco raggiungibile o visibile da altre località, e gli eremiti che frequentarono quel luogo cercavano un marcato isolamento (1). Secondo una fantasia letteraria ormai abbastanza nota, qualcuno vi condusse qualcosa d’importante per custodirlo al sicuro (2). Dopo il medioevo la località cadde in decadenza, forse anche a causa del suo stesso isolamento, e le visite pastorali testimoniano uno stato di libertino degrado. Vi comparirono poi altri eremiti, di cui non sappiamo niente o quasi. Insomma, confrontandoci con la storia di questo luogo micaelico, emerge spesso la suggestione di una possibilità di nascondimento.

La vallucola tra la dorsale e il monte Maione, dove esiste una chiesa diruta di non facile interpretazione, una fonte e le tracce di un antico grande vigneto, sembra corrispondere a una realtà a se stante, svelata alla storia solo da alcuni accidenti o persecuzioni (3). Infatti ricercare su questi luoghi è stato particolarmente arduo, e ancor oggi non possiamo dire d’aver le idee chiare su alcune vicende che lì si svolsero. Qui però potrei esser cacciato di riprendere il materiale storico sotto l’influenza di pregiudizi teorici, inflazionato dall’ “urto” della recente intuizione: è possibile che un fattore di nascondimento, o meglio auto-nascondimento, caratterizzi fondamentalmente la storia di alcuni luoghi speciali, e la ricerca compiuta su di essi?



Luoghi che “si auto-difendono”


Sia chiaro che non sto ipotizzando niente di metafisico né di energie misteriose, per quanto una certa scuola esoteristica avrebbe da esprimere note interessanti.
Credo ad esempio che certi luoghi abbiano, per così dire, sviluppato una qualche “tendenza al nascondimento” per ragioni oggettive e di vario tipo, ma anzitutto morfologiche, climatiche, geografiche e soprattutto paesaggistiche (4). Vi sono quindi le ragioni storiche, culturali, religiose, politiche: la ripetizione di alcune storie simili tra loro, eventi mancati o non-eventi; di presenze e figure spesso ombrose, dall’antichità a tempi recenti. Fatti irrisolti, inconclusi, talvolta sinistri.

Parlerei quindi di una sorta di addensamento di cause di vario tipo e di vario livello, intorno a un centro tematico, un germe narrativo il cui significato rimane offuscato. Per ragioni diverse e apparentemente scollegate questi luoghi restano irrisolti, in qualche senso specificamente importante, legato presumibilmente al loro significato storico; quasi come se tale irresolutezza facesse parte del loro fondamento oggettivo.

In questo senso parlerò, in modo un po’ pittoresco, di “luoghi che si auto-difendono”. E, nel caso della regione in cui sono stato attivo come ricercatore storico ed editore, potrei stilare un elenco tutt’altro che esiguo. Sarà che ho sempre avuto un debole per argomenti e soggetti meno battuti. Sarà che sono sempre stato attratto dai margini dell’insondabile, dalla trascendenza della ricerca. Sarà che a proposito di questi argomenti c’è meno concorrenza editoriale ma che, al contempo, non sono stato bravo a trovare risorse, umane ed economiche, per procedere su certi campi. O forse è vero anche altro, qualcosa di sfuggente su cui sto cercando di scrivere, che agisce dall’essenza dei luoghi?

Penso ora ad un altro luogo storico-archeologico a cui ho dedicato molto tempo: l’Eremo di Montesiepi a San Galgano, quello dov’è confitta la spada nella roccia. Impossibile riassumere in breve la problematica, ancora aperta, sulle origini del santuario originario. Ma si dica semplicemente che, nonostante le molte iniziative, non si è mai riusciti ad andare a fondo, tanto meno in senso letterale. Inoltre, alcune sentinelle del sapere e altre figure intransigenti hanno condotto una certa lotta contro le ipotesi più “aperte”, mie o di altri.
Galgano Guidotti è a tutti gli effetti un santo d’ascendenza micaelica, ha rapporti diretti con l’Arcangelo e suo eremo è originariamente dedicato a questo nume.

Il mio supposto elenco di “luoghi che si auto-difendono” coinvolgerebbe località di vario tipo, da recondite località montane ad aree metropolitane. Ecco ancora alcuni esempi.
Castelsecco, l’ “acropoli” di Arezzo, con i resti dei templi e le mura megalitiche, luogo che è stato scarsamente considerato fino a tempi recenti; Montereggi di Fiesole, con le grotte ed il tesoro, rimossi per molto tempo dagli esponenti della scienza archeologica locale; il Monte Labbro, nel complesso dell’Amiata, su cui è molto difficile avanzare una ricerca oggettiva senza essere trascinati in suggestioni esoteriche. E dunque, i numerosi luoghi legati a leggende di draghi, di animali psicologici, di prodigi ma anche di ingressi agli inferi (5) di cui la Toscana è ricca.
Ancora a proposito di San Michele, ricordo la misteriosa abbazia scomparsa di San Michele de’ Monti, sull’omonimo monte chiantigiano (da non confondersi col Maione), a proposito della quale molte ipotesi sono state fatte ma nessuno, appunto, ha voluto andare a fondo o è riuscito realmente a farlo. E, sempre a proposito dell’Arcangelo, mi sento di aggiungere Orsanmichele di Firenze, a cui ho dedicato più di un articolo in tempi recenti.

L’elenco, ora solo abbozzato, rischia già da subito di comprendere situazioni molto diverse tra loro, un mischione di luoghi che vanno dal “maledetto” al “misterioso”, dall’esoterico o leggendario al semplicemente dimenticato, diruto, scomparso. È necessario stringere il campo. E credo che ciò debba esser fatto attorno all’idea di un “sottrarsi” che sia in qualche modo sensibile, e che agisca, seppur attraverso fattori diversi, in modo vincente nei confronti di azioni di svelamento.

Per procedere nella definizione di quest’idea apparentemente bizzarra, ritengo opportuno interrogarmi ancora sulla mia esperienza di ricercatore, in cerca di analogie e caratteristiche di coerenza. Questo non solo a proposito dei luoghi e della loro storia, ma anche a proposito di chi vi sta ricercando sopra.
Tornando alla ricerca in sé, intravedo quindi un momento tipico in cui, dopo un periodo d’approfondimento, si avverte la necessità, la “richiesta” di rallentare e fermarsi, come se si fosse realizzato che qualcuno o qualcosa non volesse svelarsi, e che non fosse completamente lecito cercare di destarlo ricercando ancora.
Sottolineo in particolare quel momento preciso, e direi tipico, in cui il ricercatore si fa una domanda del tipo “siamo sicuri che questo luogo/personaggio non chieda di essere lasciato in pace?” Si tratta di una semplice “resa” sul piano intellettuale (a volte la ricerca trova realmente un binario morto), o di un momento psicofisico distinguibile? o qualcos’altro ancora?

Questo sentimento riguarda, appunto, altri luoghi su cui ho ricercato, ma anche altri ricercatori con i loro oggetti di ricerca. E molti di questi sono luoghi d’ascendenza micaelica.

Nel frattempo sta emergendo un legame particolare e “relativistico” tra il ricercatore e l’oggetto-luogo indagato. Quasi come se il dischiudersi o nascondersi del significato/tema centrale/essenziale dipendesse dalla presenza e dalle caratteristiche della mente del ricercatore, dalle specifiche qualità della sua osservazione. Niente di strano o rocambolesco, oltretutto tenendo conto che il tema si auto-difende, lasciando gran gioco all’inconscio.



Questi luoghi hanno “entità guardiane”


C’è un altro dato che merita di essere segnalato, poiché riguarda in particolare il livello di un a-tu-per-tu tra ricercatore e luogo, e non solo.

Spesso nelle fonti storiche ho notato l’emergere di figure sfuggenti che, con un po’ di fantasia, potremmo considerare come sorta di “entità guardiane” dei luoghi. Talvolta sono inscindibilmente legate al toponimo, come nel caso dei prediali romani e delle radici etrusche. In altri casi si tratta di figure storiche a cui tradizioni e leggende hanno esteso le funzionalità, dotandoli di contorni rarefatti quanto espansi, collegati a contesti ulteriori. Spesso l’entità può coincidere invece con un personaggio storico dai contorni più chiari, che scelse il luogo e che si fuse con esso. Galgano sul Montesiepi, David Lazzeretti per il Monte Labbro, Guglielmo d’Aquitania per Malavalle, solo per citare alcuni personaggi che mi è capitato di studiare. Sempre a proposito della “dorsale nascosta” del Chianti, credo che quanto detto valga per Bartolomeo di Bonone da Pistoia.

Quando notiamo che il discorso intorno a quei luoghi torna a collegarsi a una figura che si ripete, in modi diversi e talvolta improbabili ma sempre con qualche appiglio storico, allora è possibile che si stiano creando le premesse per un certo tipo di “fusione”, in cui l’intuito ha sì un ruolo fondamentale ma non per questo resta impossibile stabilire qualche riferimento razionale.
Allora potremo avere l’impressione che quella figura sia una “personificazione dell’essenza del luogo”, e che noi stessi, avanzando nella ricerca (e nella sua cronicizzazione), si possa compiere un avvicinamento più profondo a quel contesto. Talvolta il ricercatore diviene entità guardiana: fu così già per le figure ancestrali di cui stiamo parlando?

Si tratta essenzialmente di circostanze psicologiche in cui il singolo, e dunque il ricercatore, può percepire il sentimento di una familiarità e in casi estremi di una chiamata, attraverso il colloquio interiore (l’a-tu-per-tu) con la figura.
Forse il luogo, per i suoi caratteri e per la sua storia, è già una manifestazione di una particolare circostanza psicologica. Mentre il colloquio può avere caratteri diversi, a seconda delle persone, delle figure, dei ricercatori. Sacro quanto ironico, beatificante quanto stressante, produttivo quanto patologico.

Un tempo avrei parlato di una specie di “sindrome”, come feci appunto per la “sindrome di San Galgano”, senza avere però il coraggio d'intitolare così un certo libro (6). Peccato: sarebbe stata una scelta estrema, ma avrei salvato quella ricerca dai fraintendimenti in cui incorse.

Sindrome e rivelazione, precipitazione e elevazione … penso di dover trovare il coraggio di valutare la sintesi di queste circostanze, fosse solo per difendere le ricerche più oggettive, riconoscendo, se necessario, qualche malìa, ma  permettendo a qualcosa di originario di filtrare nella cronologia della scrittura. In effetti ho già affrontato analoghe circostanze (7).

Tuttavia, anche in questo caso devo precisare che la questione non si risolve con la denuncia di una paranoia o di una apofénia. Non si tratta “semplicemente” del caso dell’uomo che continua a sognare il monte (penso a Galgano, ma anche al personaggio di un noto film di Spielberg), poiché lì deve comparire chissà chi o cosa.
Vogliamo invece stringere il campo interrogandoci su come, nell’ambito particolari di sindromi di ricerca, possa comparire l’impressione di una “auto-difesa” del luogo stesso, una sua chiusura. E chiusura precisamente di cosa, e da cosa.

Del resto, è indubbio che in questi frangenti il ricercatore si senta misteriosamente “iniziato”. E anche lui, come tutte le figure che ho elencato poco fa, finisce generalmente con il sognare l’Arcangelo o altre figure psicagogiche.



Paesaggi che custodiscono la possibilità di una rivelazione

Torniamo quindi a immaginare il nucleo di una verità fondamentale, attinente a certi luoghi e ai loro personaggi, che per un addensamento di cause realistiche non può manifestarsi né realizzarsi pienamente. Ma che comunica in qualche modo qualcosa, forse rappresentabile come un volere, talvolta attraverso l’inconscio.

Ammesso che ciò sia plausibile, non è difficile intuire che tracce di questa verità finirebbero con manifestarsi, tra le varie anime in gioco, attraverso le fantasie, le immaginazioni-attive, le reverie, i lapsus, gli impasse. Come detto, il caso dell’errore del pittore macchiaiolo, o più precisamente il mio modo di gestire questo piccolo accidente, può essere un esempio abbastanza plausibile.
Perché, più del luogo, è la mente del ricercatore/scrittore il centro della sfera che si crea in tali contesti.

Vi è una realtà “media” in cui non è possibile assistere a una manifestazione spontanea di una realtà sottile, fosse solo perché irrimediabilmente perduta o, al contrario e parossisticamente, poiché letteralmente nascosta.
Sul piano mondano percepiamo dei limiti oggettivi: omissioni, chiusure, depistaggi, persino attacchi al ricercatore. La realtà che il ricercatore pensa di poter intuire, è “spinta a lato”, sopra o sotto, come rimossa, e finisce con l’esprimersi o a un livello personale e psicologico, o a un livello “cosmico” e collettivo, eludendo appunto una dimensione “media”. Questo secondo livello può coinvolgere l’elaborazione psicologica del paesaggio. E forse, l’idea della visione di un itinerario, è quella funzione che può collegare due livelli apparentemente divisi.

A proposito di paesaggio, l’indagine sui luoghi è senz’altro complessa e dovrebbe passare dal modo in cui un luogo è visibile, da cosa è visibile da esso, e da tutto un sistema di sguardi specifico (8). Inoltre il concetto di paesaggio è, per definizione, in discussione anche nei suoi orizzonti concettuali. E, fatto necessario al sottolinearsi nel nostro caso, sembra molto difficile parlare di paesaggi senza parlare di psiche.
Esistono però dei paesaggi e degli itinerari già collaudati dalla tradizione, sui quali è possibile fare osservazioni più oggettive, come ad esempio quelli legati alla sacralità micaelica.


Il paesaggio micaelico

L’immaginario dell’arcangelo psicagogico passa tradizionalmente dall’apparizione sul Monte Gargano, che ha un suo paesaggio tradizionale; nonché da una serie di leggende minori che presentano spesso un itinerario, come nel caso dei sogni di Galgano Guidotti. Ma l’ambientazione ha sempre qualche analogia: si parla quindi un’altura, evidente ma tutto sommato modesta (inferiore agli 800/900 metri), caratterizzata da una morfologia non lineare. In pratica, una sequenza di colline o bozze di piccole montagne. Il modello è senz’altro quello del paesaggio del santuario pugliese, ma esistono versioni “ad instar”, per la stessa ragione per cui ve ne furono diverse della Grotta tanto amata dai Longobardi.

Ad esempio, quando pensiamo al monte, o meglio ai monti di San Michele del Chianti, è lecito ipotizzare che quei luoghi fossero stati scelti non a caso, e per le loro caratteristiche morfologiche e geofisiche, atte all’evocazione immaginaria della figura dell’Arcangelo, e propriamente su modello garganico. Questo non tanto, o non solo, per cognizione geografica, quanto perché quel paesaggio era già “attivo” nella psiche collettiva e la sua immagine suggeriva scelte insediative specifiche.

Tra questi colli abbozzati si scorge sempre un itinerario, un sentiero percorribile, che conduce al luogo di una sofisticata rivelazione.
Ciò avviene in un’iconografia presente a Orsanmichele di Firenze, dove è rappresentata, in un pilastro un po’ in disparte, l’apparizione sul Gargano (ringrazio di cuore chi mi ha fatto notare quest'immagine). Si tratta di un paesaggio del modello suddetto, con un sentiero e un'affascinante luce angelica sul colle più alto. Una sintesi essenziale e particolarmente efficace di un contesto profondamente animico.

Anche in questo caso, è impossibile per me non rivedere nel dipinto le cime dei monti del Chianti, e in particolare il Corno e Vetta San Michele, e dietro il Maione o forse Monte Domini, dove la compagnia di Orsanmichele ebbe pertinenze. Se vogliamo, anche il sentiero esiste, ben visibile dal Poggio Convento (presso Vetta San Michele), apparendo così essenziale e scontato nel suo itinerario.

Parlare di questo percorso e della sua meta è particolarmente complicato e forse gli strumenti della fede, o delle forme poetiche più essenziali, possono dire e dare molto  più di una forma saggistica. Comunque sia, mi pare lecito tentare questa strada.
È possibile che questi paesaggi, e i luoghi che “si auto-difendono”, custodiscano, ma al contempo introducano, a una realtà analoga o similare.
Senz’altro, nel caso di queste mie parole, è emerso il dettaglio e il generale, lo specifico e il collettivo, e possiamo parlare della genesi di una sfera, qualcosa che si è aperto: è la bolla del ricercatore che procedendo si auto-inizia, nella fede in un contatto di profondità, o forse di una liberazione.

Tuttavia, andando avanti, potremmo scoprire che quella verità ha aspetti sconvenienti o è persino indicibile. 

[continua]

LP
 Fiorendipità
ogni primo Marte-dì del mese


 

Note

1) Questi ed altri aspetti sono sviluppati in un mio articolo dedicato all’argomento, pubblicato su Corrispondenza, la rivista della Arcidiocesi di Fiesole, nel 2013 e poi all’interno de I Sentieri di San Michele (Press & Archeos, Firenze 2013), poi Il Cammino dell’Angelo in una recente riedizione (Press & Archeos, Firenze 2023).
2) Mi riferisco anzitutto alla buttade di R. Manetti, nel suo libro Le Madonne del parto icone templari (Polistampa, Firenze 2005), riferita al Bartolomeo Bononi/Tencanari e alle ceneri che avrebbe custodito, ma anche ad altre leggende di cui è giunto l'eco, ormai perdute nella loro origine fondamentale.
3) Le persecuzioni subite dai frati minori e poi da quelli proto-girolamini, la necessità di spostarsi altrove, la decadenza dei secoli successivi, e l'increscioso abbandono delle ultime decadi.
4) Rimando alle mie ricerche condotte sul paesaggio chiantigiano ne Il Quarto Chianti (Press & Archeos, Firenze 2010-2012) e Il Fattore E (Press & Archeos, Firenze 2020).
5) Nella prima parte d’attività della nostra piccola casa editrice abbiamo lavorato a vari libri dedicati alle leggende di Toscana ed Etruria, tra i titoli Le chiocce d’oro, Draghi di Toscana, Le porte degli inferi in Etruria, per i dettagli si veda pressandarcheos.com
6) Il famigerato libro di cui sto parlando uscì poi il titolo Galgano, signore del Cerchio (Press & Archeos, Firenze 2010).
7) Ad esempio nell’articolo I "sotterranei del cielo" a Firenze. Fantasie su passaggi segreti e paranoie da sottotetto, in questo stesso blog, https://lorenzopecchioni.blogspot.com/2024/10/i-sotterranei-del-cielo-firenze.html
8) Il Fattore E, Press & Archeos, Firenze 2020, p. 96 e seg.