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Nel corso del IV-II secolo a. C. l’ellenismo corrisponde a un intreccio di caratteri, una facies esistenziale che si propaga in uno spazio incredibilmente ampio secondo un vago simmetrismo, avente per epicentro il mare Egeo.
L’essenza di questo fenomeno potrebbe essere collegato, sulla scia dello spirito macedone, nella tensione all’incontro con l’ignoto, apparente aspirazione alla conquista e all’integrazione o, nel profondo, desiderio mortifero teso a scomparire in quella stessa alterità. Parliamo del resto di una spiritualità – quella eminentemente greca – che ha ormai circumnavigato le sue ragioni e che può tendere con naturalezza a una paradossale implosione estroflessa.
È anche per queste ragioni più “oscure” che nelle risultanti estetiche, almeno per come queste possono apparire agli occhi di un moderno, ciò che avviene nell’ellenismo etrusco non è poi così diverso da ciò che avviene nell’ellenismo indiano.
Esiste una rêverie, a tratti una deriva immaginaria comune a contesti
in cui il fattore ellenistico sarà infine assorbito da altri imperi.
In entrambi i casi, Etruria ed India, ciò che è ellenistico
(ricordiamo che gli Etruschi, sul finire della loro parabola, legavano
le loro origini all’oriente ellenico addirittura precedendolo nella
mitistoria originaria) guarda al tramonto, con un compiacimento intriso
di paradossale vitalità.
Questo vago simmetrismo tra Etruria e India seduce da sempre coloro che sono primigeneamente attratti dal mondo dei Rasna (parola che insiste in entrambi i mondi), ma non è mai stata posto un interrogativo su questa “strana” fascinazione.
Ancora una volta, anziché lanciarsi in improbabili prospettive storiche (sebbene esistano contributi che pongono basi interessanti), potremmo guardare a quello che succede in noi: noi
come “spettatori”; e, più in generale, in quella sfera
ontologico-esistenziale che fino a prova contraria ci accomuna agli
antichi.
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